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La prima intervista a
Samah Salaime, portavoce del del
Villaggio di Neve Shalom Wahat al-Salam e a Giulia
Ceccutti, coordinatrice dell'Associazione Italiana
Amici di Neve Shalom Wahat al-Salam l’abbiamo
realizzata nel 2022, molto prima dell’attentato
terroristico di Hamas e dell’aggressione di Israele
a Gaza. In quella occasione ci avevano raccontato
dell’esperienza di NSWAS, Villaggio cooperativo nel
quale vivono ebrei e palestinesi israeliani, fondato
nel 1972 da Padre Bruno Hussar che su queste colline
sognò un’oasi di pace e convivenza possibili. Dopo
il 7 ottobre gli scenari sono cambiati. Israele è
entrata a Gaza e anche nel resto della Cisgiordania
la pressione è aumentata.
Giulia Ceccutti
ha deciso di raccogliere le storie degli
abitanti del Villaggio per consentirci di Respirare
il futuro.
Il libro racconta della possibilità di costruire un
domani in cui le divisioni sono superate con il
dialogo.
Abbiamo incontrato a Roma Samah, in Italia per
partecipare al Journalism Festival di Perugia, e
Giulia, in occasione della promozione del libro
Respirare il fututo.
Breve biografia
Samah Salaime
Direttrice dell'Ufficio Comunicazione del Villaggio,
classe 1975 è originaria del nord di Israele, figlia di
rifugiati e la maggior parte della sua famiglia vive in campi
profughi sparsi in diversi Paesi del mondo. Sogna il
giorno in cui tra israeliani e palestinesi ci sarà la
pace, “alcuni membri della mia famiglia torneranno, e
potremo costruire una casa”.
Assistente sociale, ha una specializzazione in studi di
genere conseguita presso la Hebrew University di
Gerusalemme. È ricercatrice e attivista sui temi
dell’educazione di genere nella società palestinese,
nell’imprenditoria sociale e nelle relazioni tra
maggioranza e minoranza. Collabora con alcune testate
nazionali tra cui Haaretz.
Nel 2009, dopo aver conosciuto di persona, per lavoro,
la drammatica condizione di discriminazione vissuta da
molte donne arabe in Israele (in particolare nelle città
a popolazione mista arabo-ebraica), ha fondato
l’associazione Naa’m – Arab Women in the Center che si
batte contro la violenza domestica e i cosiddetti
“delitti d’onore”, la discriminazione delle donne
nell’ambito del mercato del lavoro, il diffuso
atteggiamento patriarcale e i matrimoni precoci.
Abita dal 2000, con la famiglia, nel Villaggio.
Nel 2015 per il suo impegno contro la violenza sulle
donne e a favore della parità di genere ha vinto un
importante premio per i diritti umani, il New Israel
Fund Human Rights Award.
Nel 2020 è stata inserita nella lista di Forbes fra le
donne più influenti di Israele.
Giulia Ceccutti
Nata a Milano, classe 1978, è laureata in Lettere
moderne, lavora nell’editoria e ha collaborato a lungo
con l’Associazione Amici di Lalla Romano per la
redazione di testi.
Sensibile ai temi del dialogo e della gestione dei
conflitti, segue dal 2004 la realtà israelopalestinese e
delle associazioni che in quel contesto operano per la
pace, collaborando con l’Associazione italiana che
sostiene in Israele il Villaggio di Nevé Shalom – Wahaat
as Salam, nel quale vivono insieme per scelta famiglie
israeliane e palestinesi di cittadinanza israeliana.
Nel 2025 ha pubblicato il libro Respirare il futuro
-
La sfida di Neve Shalom Wahat al-Salam. Il libro
raccoglie le testimonianze degli abitanti del Villaggio:
le loro parole tracciano percorsi e aprono prospettive
concrete. |
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INTERVISTA |
A cura di Francesca Chirico |
>Leggi tutte le interviste |
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SAMAH SALAIME
Il Villaggo a metà strada fra gli orrori di Gaza e l'attesa
dei parenti degli ostaggi a Tel Aviv è il simbolo della vita
condivisa tra ebrei israeliani e arabi palestinesi. Quanto
dopo il 7 ottobre ha influito sullo stato d'animo degli
abitanti e come siete riusciti a rielaborare l'acuirsi di un
conflitto che ha segnato un'ulteriore distanza nelle
differenze tra arabi ed ebrei?
Il 7 ottobre a Neve
Shalom Wahat al-Salam, come in ogni altra comunità, eravamo
completamente sotto shock e traumatizzati per quello che era
successo. Nessuno si aspettava un così massiccio attacco dei
guerriglieri di Hamas contro gli insediamenti israeliani nel
sud, anche se eravamo consapevoli che la situazione a Gaza
fosse insostenibile dopo 17 anni di assedio, con il tasso di
povertà e la necessità di aiuti umanitari sempre crescenti e
anche che il blocco intorno a Gaza non potesse continuare
per sempre, ma attaccare i civili, rapire bambini e madri di
famiglia è inaccettabile! Siamo rimasti tutti senza parole.
Abbiamo perso amici, attivisti per la pace nell'attacco e,
allo stesso tempo, i membri del villaggio hanno perso i loro
amici, i loro cari e le loro famiglie d'origine a Gaza che
sono stati uccisi dai bombardamenti.
Non potevamo continuare la stessa vita, eravamo sotto forte
stress. Ci troviamo a 30 minuti di macchina da Gaza, quindi
sentivamo le bombe e gli aerei dell'aeronautica, i boati ed
è stato terrificante per tutti noi, arabi ed ebrei.
Wahat al-Salam è un modello di fiducia nella vita condivisa,
crediamo nell'azione non violenta, crediamo che dovremmo
fare di tutto per far progredire il processo di pace e porre
fine a questo conflitto pacificamente, con metodi non
violenti e non con la guerra. Adesso siamo qui, 17 mesi
dopo, dopo quasi 60 o 50 mila vittime e con ancora 59
ostaggi a Gaza che andranno incontro anche loro al loro
destino se questa guerra continuerà. Siamo coscienti che le
guerre e la violenza non riporteranno nessuno a casa e non
consentiranno a nessun palestinese di essere al sicuro, come
è giusto che sia. La catastrofe umanitaria è inconfutabile.
Per tutti e per gli attivisti per la pace è un momento
davvero difficile, siamo bloccati, non possiamo parlare e
non possiamo protestare. Per mesi non siamo riusciti a dire
nulla perché i palestinesi attivisti per la pace,
soprattutto all'interno di Israele, sono stati perseguitati
e arrestati perché hanno pubblicato contenuti contro la
guerra; e questo è il minimo che può accadere.
Non possiamo dire di stare organizzando una raccolta di
fondi o di aiuti umanitari o per curare i feriti a Gaza.
Abbiamo perso giornalisti, medici, abbiamo perso assistenti
sociali. Ero a Gaza due mesi prima di ottobre, nell'estate
del 2023 e ne ho visto i bisogni, ho visto e visitato un
rifugio per donne che è stato bombardato e raso al suolo e
ho lavorato con donne maltrattate nella città palestinese di
Gaza. Ora, ogni presidio per l'assistenza medica, per le
nascite, per l'assistenza e i servizi sociali sono stati
distrutti durante la guerra. Queste donne e i bambini
rimasti orfani, hanno bisogno di qualcuno che li aiuti ma ci
è vietato. È proibito arrivare fino al valico per aiutarli
con il cibo o altre forniture.
È una tortura per gli attivisti per la pace, è davvero dura
da accettare per la nostra comunità. Adesso stiamo
organizzando una conferenza di pace per l'8 e il 9 maggio e
speriamo che si presentino migliaia di persone.
Perchè sappiamo che l'opinione pubblica israeliana capisce
sempre di più che questa guerra è una guerra personale di
BiBi Netanyahu per mantenere il potere.
Siamo consapevoli che solo i negoziati e un accordo di pace
riporteranno indietro gli ostaggi e porranno fine alla
guerra, quindi - è davvero difficile dirlo - ma noi sapevamo
che saremmo arrivati a questo punto, perché a Neve Shalom
Wahat al-Salam abbiamo quasi 50 anni di esperienza di vita
in pace e sappiamo che l'unico modo per vivere in pace è la
vera democrazia, senza alcun tipo di supremazia. Questo
significa consentire l'accesso ai servizi in modo equo e
riconoscere pari diritti a palestinesi e israeliani.
Guardando a quello che sta succedendo nella mia regione
sembra un'utopia adesso, ma la realtà ci dice che è
possibile e questo lo sperimentiamo nel Villaggio. Fuori dal
Newe Shalom vivono 7 milioni di palestinesi e circa 7
milioni di ebrei israeliani, tra il fiume e il mare, e
l'unica forma che conosciamo e che può garantire la
sicurezza e la pace per tutti, l'unica soluzione
percorribile è, appunto, la democrazia. Noi la pratichiamo
nella nostra piccola comunità da 50 anni e non riusciamo a
capire perché non possa essere esportata nella regione.
Neve Shalom Wahat al-Salam è diventato molto attivo nella
comunità pacifista, sulla stampa e nei media, sostenendo la
causa della pace insieme ad altre organizzazioni. Non siamo,
appunto, gli unici a cercare di portarne avanti le istanze,
collaboriamo con altre organizzazioni pacifiste,
condividendo l'organizzazione di eventi di sensibilizzazione
della società per promuovere la pace e provare a fermare la
guerra chiedendo un cessate il fuoco immediato.
Quali sono le ragioni di un conflitto così
atavico e perchè questa volta è così diversa dalle altre
volte?
Io ho 49 anni e sono una palestinese con cittadinanza
israeliana. Sono diventata una cittadina palestinese in
Israele in ragione della Nakba del '48 perchè la mia
famiglia è stata costretta a lasciare il villaggio in cui
avrei dovuto nascere. Rappresento la terza generazione di
rifugiati. A causa di questa situazione i miei nonni sono
finiti nel nuovo stato di Israele, anche se la maggior parte
dei palestinesi, compresa tutta la mia famiglia d'origine,
vivono da rifugiati in Siria e Libano e in altri posti del
mondo.
La causa del problema si origina con l'ingiustizia
Perpetrata nei confronti del popolo palestinese nel '48,
quando il mandato britannico è terminato e le tribù ebraiche
hanno preso il controllo, dopo la seconda guerra mondiale,
della terra palestinese e la comunità internazionale non ha
tutelato il nativo popolo palestinese, che viveva in quella
terra. L'inizio di tutto è stato la guerra del '48, poi
quella del '67 e poi ancora la guerra in Libano, fino al il
conflitto in corso causa di maggiore dolore, ingiustizia,
occupazione e oppressione per il popolo palestinese,
portandoci fino a questo punto.
Credo possa essere riassunta così la causa che sta dietro i
problemi di questo conflitto, perché tutti noi lo sappiamo e
lo vediamo cosa succede in questo conflitto. Tutti noi,
palestinesi, israeliani e la comunità internazionale siamo
chiamati a dare attuazione all'accordo di Oslo per avere
qualche speranza che nel giro di qualche tempo lo stato
palestinese indipendente diventi realtà e dia qualche
spiraglio di pace ai palestinesi. Nel frattempo i coloni
degli insediamenti di destra, i leader fascisti all'interno
di Israele hanno preso il potere ed è sotto gli occhi di
tutti cosa abbiano prodotto gli ultimi 20 anni di politica
degli insediamenti. Siamo arrivati a 700.000 israeliani che
occupano le aree palestinesi. I coloni occupano l'area C,
l'area A, l'area B, che avrebbero dovuto costituire lo stato
palestinese indipendente. Mettendo sotto assedio Gaza, hanno
attuato una punizione collettiva crudele e dolorosa per due
milioni di palestinesi a Gaza. La sofferenza di oggi,
secondo me, deriva dall'aver ripetuto lo stesso errore,
cercando ancora di cancellare e fare sparire il popolo
nativo palestinese con i suoi diritti e negandogli il
riconoscimento di individui che hanno bisogno di avere una
loro indipendenza, una loro identità, un loro paese.
In questo momento, Israele gode del sostegno illimitato
degli Stati Uniti e della maggior parte dei paesi
occidentali e il loro sostengono nei confronti della
politica di occupazione non dà alcuna speranza ai
palestinesi. E quando qualcuno perde la speranza e ha
bisogno dei beni di prima necessità per continuare a vivere
dignitosamente e in sicurezza, si arriva a questa situazione
di cui stiamo pagando il prezzo tutti, palestinesi e
israeliani. Il motivo per il quale ci troviamo a vivere la
terribile guerra in corso è dato dal fatto che Israele ha
cercato di negoziare la pace con l'Arabia Saudita, gli
Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e altri paesi, lasciando
fuori i palestinesi. Ci sono sette milioni di palestinesi in
Israele e sono loro i "vicini", le persone reali con cui
bisogna organizzare la pace: trascurare quello che spetta ai
palestinesi sul campo, ci ha portato a questo punto.
Israele ha carta bianca rispetto all'uso della violenza e
delle armi per uccidere i palestinesi, per questo motivo
assistiamo a queste orribili catastrofi e ai massacri
indiscriminati. E mentre le persone, sul campo di battaglia,
stanno cercando di riuscire a rimanere vive, lottando per la
propria esistenza, parlano di "trasferimento", Le fantasie
del popolo ebraico, dei coloni che controllano il governo di
Netanyahu, con il supporto dell'amministrazione Trump,
questa folle idea surreale, quello su cui si facevano
battute qualche anno fa, è diventata un'ipotesi reale e si è
concretizzata con l'aggressione. Sapete cosa sta facendo
l'IDF nei campi di accoglienza in Cisgiordania? Così come a
Genin, Ramallah, Nablus? Stanno facendo sparire, trasferendo
e distruggendo, tutto ciò che è riconducibile ai rifugiati.
Se distruggiamo i campi di accoglienza sarà la fine.
Il problema sono i rifugiati, ecco perché ne stanno
attaccando la reputazione o qualsiasi cosa sia collegata
alla loro riabilitazione e al riconoscimento del diritto dei
palestinesi di tornare nella loro terra. Ora è [Gaza] ad
essere sotto attacco con il sostegno del governo degli Stati
Uniti, principalmente, del regime statunitense, ma nella
storia si è sempre cercato di cancellare intere popolazioni.
Basti pensare agli armeni, agli ebrei durante la seconda
guerra mondiale o in Ruanda, in Myanmar. Ma noi sappiamo che
non si può commettere un genocidio e avere un lasciapassare
per continuare ad esistere. Sappiamo che non è possibile
neanche uccidere 7 milioni di persone o annientarle,
resettarne la mente o rimuoverle da uno spazio. Non accadrà!
Però, nel frattempo, questo tentativo sta causando un numero
enorme di crimini, di esodi forzati, di dolore per entrambe
le parti: e questo deve finire! Penso che il primo passo sia
rendersi conto che il popolo palestinese è sempre stato tra
il fiume e il mare e sarà sempre il "vicino" del popolo
ebraico. Noi di Neve Shalom crediamo che questa cosa di
vivere insieme debba essere fatta pacificamente e, noi,
sappiamo come farlo!
Il fatto che che in questo momento gli israeliani non
prendano nemmeno in considerazione questa opzione, penso che
sia il modo più violento di leggere la storia. È tutto o
bianco o nero, noi o loro, c'è posto per un solo popolo in
quest'area, e sarà il popolo ebraico! Questo è l'approccio
più pericoloso che abbiamo affrontato in 76 anni.
Dopo il 7 ottobre per far conoscere in
Israele cosa succede realmente a Gaza avere dato avvio ad un
nuovo progetto "Stampa per la Pace", che ha lo scopo di
sensibilizzare l'opinione pubblica sulle molteplici facce
del conflitto e sulle possibili soluzioni e per creare un
linguaggio nuovo passando da una comunicazione
disumanizzante al linguaggio della pace. Ci racconta quali
sono le possibili soluzioni del conflitto e come si
costruisce questo nuovo linguaggio?
Dirigo l'ufficio
comunicazione di Wahat al Salam Neve Shalom e come portavoce ho
organizzato decine di interviste per giornalisti stranieri
che sono venuti in Israele e in Palestina per raccontare cosa
succede a Gaza. Dopo poche settimane come giornalista sai
di avere bisogno di nuove storie e, devo dire, che la maggior parte dei
giornalisti stranieri provenienti da tutto il mondo dall'Italia, dalla Svizzera, dall'Inghilterra, dagli Stati
Uniti e persino dalla Thailandia, si sono dimostrati
interessati al modello di pace attuato a Wahat al Salam Neve
Shalom, per raccontare
un'altra narrazione realizzabile, in cui le persone arabe
ed ebrei possono vivere insieme senza uccidersi a vicenda e
possono vivere insieme pacificamente. Ho notato che
per molti mesi, per quasi un anno, nessun
giornalista ebreo si è presentato, nessuno voleva parlare
del nostro modello in Israele. Abbiamo avuto anche giornalisti
arabi arrivati da tutto il mondo arabo per raccontare cosa
facciamo, cosa stiamo cercando di fare soprattutto durante
la guerra, ma nessuno dei media tradizionali ebrei è venuto
a raccontarlo. E sappiamo anche perchè. I media ufficiali in Israele
sono stati "reclutati" per riportare e
ripetere i messaggi dell'IDF; sono completamente a
favore del governo guardandosi bene dal fare una critica o
mettere in discussione la politica israeliana. Adesso alcune voci parlano delle manifestazioni e
superano le reticenze, ma per molti mesi si sono allineati
alla versione del governo. Ripetere le bugie e fare il
lavaggio del cervello con le parole, comprendi bene, non è il vero ruolo del giornalismo onesto e
coraggioso. Uno dei giornalisti [che si è presentato], un giornalista ebreo
ha detto: "Quando dovrò scegliere se essere un giornalista o
un nazionalista, io, sceglierò il sionismo. Io sono
qui come ebreo, non come giornalista professionista". E
questa è stata la scintilla dell'ideazione di Stampa per la
Pace. Perché i media israeliani, il pubblico
israeliano, la gente normale, vede solo le tv nazionali. Ci sono tre canali nazionali e uno di questi è davvero, davvero
fascista, il canale numero 14, che manda meddaggi di
incitamento all'odio. Hanno detto vogliamo ucciderli tutti, dobbiamo violentarli tutti, tutti
messaggi che sono stati pubblicati e sono stati
menzionati, in realtà, nella commissione speciale dell'ONU
che indaga sui crimini a Gaza. Le storie dei media
tradizionali sono in realtà una prova lampante contro la
politica israeliana, ora all'attenzione della nella Corte internazionale di
giustizia e questo è stato registrato e pubblicato da giornalisti
israeliani. Quindi abbiamo pensato che potesse essere davvero coraggioso ascoltare le voci, l'altra
voce delle persone che parlano del del cessate il fuoco, parlano di
accordi e di aiuti umanitari e dell'urgenza di parlare di
pace, ad esempio. Vogliamo cambiare la terminologia,
vogliamo far capire ad alcune persone che esiste un modo
alternativo rispetto alla continuazione della guerra in corso.
Non
dobbiamo combattere per sempre, c'è una soluzione e dovrebbe essere sul tavolo,
perlomeno dobbiamo farla giungere sui media mainstream.
Prima del 7 ottobre avrei dovuto essere intervistata due volte a settimana
nella TV nazionale per spiegare cosa succede nel mondo
arabo, cosa succede nella società palestinese, qual è la
situazione delle donne e le questioni di genere e dopo il 7
ottobre sono stato bandita per mesi, e non sono la sola. Solo i generali e i militari vanno
in onda per fomentare la gente e controllare le persone, per supportare
l'IDF e l'altra voce rimaneva nascosta, anche se
c'erano alcuni giornalisti ebrei di sinistra, liberali,
che iniziavano
a mettere in discussione la politica del governo israeliano
e che si sono sentiti dire dire che non era il momento, non volevano
ascoltarli o di prendere un periodo di ferie. Sono giornalisti molto
rispettati che sono stati
banditi dai media ufficiali ed
è triste vedere come
la macchina della propaganda israeliana stia facendo il
lavaggio del cervello alle menti del
popolo ebraico, creando continuamente confusione con l'olocausto,
insinuando che tutto
il mondo li ucciderà e combattere è l'unico modo per
sopravvivere. E' stato patetico vedere
6 milioni di israeliani inconsapevoli che, in questo modo, penso
siano dibentati ostaggi dei media e del governo.
La stampa per la pace è un'iniziativa che abbiamo
avviato
nel nostro istituto scolastico per raccogliere le voci di pace
di
persone che parlano in ebraico, arabo e inglese,
ma principalmente in ebraico, per cercare di fornire un
altro punto di vista, un'altra narrazione, della storia che è stata nascosta
principalmente all'opinione pubblica in Israele. Abbiamo iniziato con sette
o otto opinionisti e ora abbiamo circa 400 persone nel
gruppo,
principalmente ebrei che pubblicano di continuo, scrivono di continuo,
trasmettono in streaming di continuo, dal basso, per dire
che ci sono voci che chiedono il cessate il fuoco, di
fernare la guerra subito. Adesso partecipano anche alle manifestazioni, mentre
trasmettendo un messaggio alternativo. Alcuni di loro sono stati
perseguitati,
alcuni sono stati accusati di tradire la loro stessa
condizione di cittadini ebraici, alcuni di loro affrontano
ondate di odio sui social media e questa è una
specie di
critica virtuale rispetto alla narrazione che stiamo
cercando di mandare in onda. Adesso siamo molto deboli,
una piccola voce, ma a un certo punto questa guerra finirà e
si inizieranno a chiedere "cosa possiamo fare di più adesso?",
allora le voci di pace
dovrebbero essere forti, orgogliose e diffuse.
Nel libro racconti di provenire da una
famiglia di rifugiati e di avere conosiuto la storia che ti
hanno tramandato in famiglia e poi di avere conosciuto,
invece, a scuola, sui libri, una storia diversa, di ebrei
arrivati in una landa desolata, in un paese in cui non
c'erano degli abitanti e invece c'erano. Proprio
l'educazione, quello che si studia a scuola sui libri è il
focus del Villaggio, come si può ripartire dai giovani che
si nutrono dell'odio dei padrim rispettivamente palestinesi
e israeliani, per costruire la pace attraverso l'educazione?
La mia storia personale è
iniziata quando ero un bambina in una cittadina molto
piccola del distretto nord di Israele, in BaGalil, in un
piccolo villaggio arabo, dove ho imparato chi sono. Poi ho
ricevuto l'istruzione nel sistema scolastico pubblico in
Israele. Nel sistema di istruzione pubblico che la
maggior parte dei bambini in Israele frequenta e non nelle
scuole private.
Entrambi i miei genitori erano insegnanti e hanno perso
tutto nella Nakba: la loro terra, le loro proprietà. Hanno
ricominciato da zero in questo nuovo villaggio come
rifugiati e hanno investito nell'istruzione. Per cui,
l'istruzione che ho ricevuto è fondamentalmente
un'istruzione araba all'interno del sistema israeliano.
Abbiamo conosciuto e imparato a memoria la storia del popolo
ebraico che è arrivato in questa terra vuota e ha costruito
questo bellissimo Israele, trasformando questa terra vuota e
il deserto è diventato un bellissimo giardino.
Ovviamente a mia nonna, che aveva il suo grande giardino nel
villaggio da cui è stata evacuata, esiliata e costretta ad
andarsene con la forza delle armi, non amava quella storia e
aveva una versione diversa.
La narrazione nella mia famiglia è che abbiamo perso tutto a
causa della guerra del '48 e siamo stati in questa
situazione per decenni. In realtà mia nonna mi raccontava
che c'era sempre un vicino ebreo nel suo villaggio con il
quale erano amici e andavano d'accordo senza uccidersi a
vicenda. C'erano villaggi palestinesi già 30 prima
dell'insediamento degli evrei sionisti, che iniziarono ad
arrivare nel 1920 e lei non riusciva a capire perché
dovessero uccidere, perchè dovessero esiliare, perché
dovessereo sfollare il suo villaggio, ed è morta con questo
cruccio, Nei miei libri di testo ebraici, invece, ho letto
la storia dell'Olocausto, ho letto la storia delle cinque
ondate della nuova immigrazione del popolo ebraico
dall'Europa e da altri paesi verso la mia terra, e questa è
una sorta di contraddizione che mi porto dietro. Ho deciso
di andare all'Università Ebraica, di vivere a Gerusalemme,
per studiare come assistenza sociale. Mi sono laureata in
assistenza sociale e ho conseguito anche il master in
assistenza sociale e studi di genere e ho incontrato il mio
primo compagno di classe o collega ebreo a 19 o 18 anni.
Ero così giovane e parlavo poco ebraico che avevo imparato
dalla letteratura ebraica perché era una materia
obbligatoria e mi sono resa conto che sono con tutta questa
contaminazione ero in una condizione di vantaggio rispetto a
loro, perchè conoscevo un po' di ebraico, mentre loro non
sapevano niente del popolo arabo o dei palestinesi; non
parlano arabo, forse gli piaceva il cibo arabo, ma non
comunicano con gli arabi. Di solito gli studenti ebrei
arrivavano dopo aver prestato servizio nell'esercito, quindi
gli unici palestinesi che avevano incontrato, erano quelli
nei posti di blocco e nei territori occupati. Così, per
loro, i palestinesi erano il nemico e io sono stata
identificata con quel popolo. Avevano così tanti stereotipi
su di me: perchè sono una musulmana che non porta l'hijab?
Sono oppressa a casa, ho subito abusi... Erano coì tanti gli
stereotipi islamofobi che si si portavano dietro dal
servizio militare che mi chiedevo quale potesse essere il
mio ruolo per risolvere la situazione. Non lo sapevo, ma
sapevo di avere il dovere di mettermi in gioco, di parlare e
di raccontare la verità della mia storia. Ho capito anche
che il nostro sistema di istruzione pubblica è chiuso in
Israele ed educhi queste persone a essere sionisti,
combattenti, soldati e odiatori degli arabi e educhi anche
me nel modo sbagliato: devo avere paura di loro, non devo
integrarmi, devo raccontare la mia storia, la storia
palestinese a porte chiuse avendo continuamente paura e
tacere nello spazio pubblico. Quindi, non si è riusciti a
preparare sia noi ragazzi palestinesi che i ragazzi
israeliani alla nuova realtà di un luogo che è misto,
integrato, ci sono palestinesi ovunque ed ebrei israeliani
ovunque, nell'università ebraica, nelle aule, al mercato, in
farmacia, nelle scuole...ovunque! Soprattutto nell'accademia
e anche nel sistema sanitario. Il 40% del personale del
sistema sanitario in Israele è costituito da dottori e
infermieri palestinesi che si prendono cura di loro. Non si
può fare finta che non sia successo niente, non si può fare
come se non ci fossero palestinesi o israeliani nei paraggi.
Ma il sistema pubblico di istruzione non ci ha preparati a
questa realtà, hanno fallito. Già da studentessa ho deciso
che non sarebbe successo ai figli che avrei avuto. Non
potevo permettere che questo continuasse per decenni, questo
è ancora il sistema israeliano è segregato, è separato, e ci
chiediamo perché si odiano a vicenda quando divantano
grandi! Perché c'è l'ignoranza, la paura e l'incitamento nei
nostri libri. Nei libri in ebraico si dice che sono il
popolo eletto, che hanno diritti supremi e Dio dà loro
questi diritti divini.
Non possiamo accettare questo sistema di lavaggio del
cervello dei bambini ebrei e dei bambini arabi palestinesi,
non funziona! Stiamo soffrendo a causa di questo fallimento.
Ogni generazione è divantata più radicale, è diventata
più violenta, è diventata più estremista e penso che questo
sia un male per entrambe le parti.
E ho deciso che i miei figli avrebbero avuto qualcosa di
diverso. Poi sono rimasta a Gerusalemme, ho il mio primo
figlio, aveva cinque anni e stavamo cercando una scuola per
la prima elementare. Gerusalemme est era chiusa. Non ho
potuto educarlo nel sistema ebraico, non potevo educarlo
nelle scuole straniere, cristiane o diplomatiche. Non potevo
educarlo nel lato palestinese perché usavano il curriculum
giordano e non parlavano ebraico, non parlavano arabo,
quindi era troppo da gestire. Avevamo quasi rinunciato e
volevamo tornare a casa con questo fallimento e tornare alla
normale scuola pubblica. Poi ho conosciuto Neve Shalom,
l'istruzione bilingue binazionale integrata, la scuola
primaria di questo villaggio è integrata, abbiamo bambini
arabi ed ebrei in classe, entrambi gli insegnanti, arabi ed
ebrei, che parlano arabo ed ebraico. Non si tratta solo
della lingua, si tratta della storia, si tratta
dell'eredità, della tradizione, della religione, tutto è
integrato e in modo sensibile. Promuoviamo discorsi di
tolleranza, rispetto e conoscenza. Non abbiamo paura di ciò
che è successo nel '48 e nel '67. Non abbiamo paura di dire
ai bambini la verità di entrambe le storie e loro con questa
pesante storia per entrambi i popoli, che abbiamo possono
condividere una sorta di futuro. Quindi mi è piaciuto quel
messaggio e ho pensato che fosse abbastanza buono per il mio
bambino, così ci siamo trasferiti a Neve Shalom Wahat
al-Salam nel 2000. Risulta ironico e doloroso allo stesso
tempo: era l'ottobre 2000 e la seconda intifada era appena
iniziata e ci risiamo...Dopo 25 anni abbiamo un altro
ottobre maledetto e non abbiamo raggiunto la pace ma Neve
Shalom diventa più grande, ora siamo 300 residenti 90
famiglie, abbiamo una lista d'attesa di famiglie arabe ed
ebree che vogliono unirsi alla comunità, abbiamo più di 300
bambini nella scuola che provengono dalle aree circostanti.
Non siamo gli unici che credono in questo modello, in
Israele e in Palestina adesso ci sono nove scuole bilingue
fuori dal villaggio. Questo significa che la gente comune
vuole la pace, la gente comune vuole cose diverse per i
propri figli e penso che noi contribuiamo al sistema
educativo in Israele e in Palestina offrendo questo modello
alternativo di istruzione di educazione alla pace
binazionale e bilinguistico.
Sono orgogliosa che dopo 25 anni io e il mio partner ebreo,
il co-direttore a Neve Shalom, stiamo portando avanti questo
sistema educativo per i bambini, per i genitori, per gli
adulti con la Scuola per la Pace e con la leadership
interreligiosa anche nel Centro spirituale. Abbiamo qualcosa
da offrire al mondo, ora siamo una voce molto piccola,
modesta, ma nessuno può negare che esistiamo da 50 anni e
che questa è una piccola storia di successo per il mondo.
GIULIA CECCUTTI
Abbiamo sentito da Samah il racconto del Villaggio. Volevo
chiederti come è nata l'idea di raccogliere le storie degli
abitanti del villaggio in un libro.
Questo libro è nato
durante la guerra, prima del dell'ultimo cessato il fuoco e
quindi in un momento estremamente doloroso anche per la
comunità. Perché, come ci ha raccontato Samah, il 7 ottobre
e la guerra che ne è seguita hanno portato tanti lutti anche
in prima persona per gli abitanti del villaggio.
E poi ci sono stati i lunghi mesi di guerra, una tragedia
infinita di trauma e morte per la situazione.
Quindi, a un certo punto, nel mezzo di questo buio, abbiamo
pensato come associazione italiana, con la collaborazione
della casa editrice ITL, che fosse arrivato il momento di
far sentire anche qui in Italia una voce differente, una
voce controcorrente, una voce che parla di futuro, di
respiro, di speranza e quella voce è quella degli abitanti
del villaggio di Neve Shalom Wahat al Salam.
Il libro è nato anche con l'idea di dare voce per la prima
volta in italiano proprio agli abitanti; cioè, di far
raccontare a loro che cos'è quella realtà e come ha vissuto
questa guerra che purtroppo,
avendo il villaggio alle spalle 50 anni di storia, ha
vissuto già altre guerre, due intifada e quindi ha,
purtroppo, alle spalle una lunga storia di conflitto, così
come ovviamente la terra in cui è inserito. Ecco,
all'interno di questo contesto ci piaceva l'idea di far
parlare loro a partire dalle storie personali di queste
persone.
Quindi siamo partiti anche nelle interviste, che sono alla
base di ciascun capitolo del libro, da quello che è la
singola persona, la sua storia, le sue scelte, come mai ha
deciso di abitare in nella comunità, di abitare con quella
che viene chiamata l'"altra parte". E il libro raccoglie,
appunto, testimonianze di diverse persone di diverse età,
uomini e donne, che vivono all'interno del villaggio e che
hanno un ruolo all'interno delle istituzioni educative, che
sono la scuola primaria bilingue e binazionale, la Scuola
per la Pace che lavora con gli adulti sull'educazione al
dialogo che ha una lunga storia in termini di gestione del
conflitto; è nata nel 1979, ha sviluppato in tutti questi
anni un metodo che all'inizio era pionieristico e poi,
adesso, è un metodo assolutamente professionale e anche
esportato all'estero nell'ambito della mediazione.
La Scuola per la Pace e il Centro Spirituale Pluralista di
Comunità, centro spirituale che ha un carattere
multiculturale che dà spazio a tutte le fedi e anche alle
sensibilità che abitano in quella terra.
Nelle interviste raccolte nel libro colpisce
la dimensione del dopo. Cosa desiderano dopo, con l'idea che
prima o poi la guerra terminerà e ci sarà un futuro: è il
respiro che viene fuori dal libro. Qual è il futuro epr gli
israeliani e i palestinesi, come potranno vivere nuovamente
in pace e come faranno a riconciliare e ricucire le ferite
che quest'ultima guerra ha prodotto?
È una domanda che sicuramente ne contiene tante altre e
rispondo per quella che è la mia esperienza, anche nella
scrittura di questo libro che è un' esperienza di grande
ricchezza umana che ho ricevuto, che sicuramente si
percepisce nella lettura di queste storie. Sono tutte
persone con una straordinaria ricchezza umana e anche
capacità di empatia verso l'altro. Eldad Joffe, il sindaco
del villaggio, nel messaggio che ha scritto e che abbiamo
messo all'inizio del libro, dice proprio questo, cioè:
questo è un momento estremamente difficile dal 7 ottobre in
poi, anche per la comunità, non è il momento di iniziative
di pace rivoluzionarie, ma stiamo - usa questa parola -
"mantenendo il terreno".
Cioè cercando, intanto, anche tenere unita la comunità,
perché come è facilmente immaginabile con dei traumi del
genere, lo sforzo è anche proprio di rimanere uniti. E la
cosa bella che diverse persone del villaggio ci dicono è che
nessuno ha lasciato la comunità durante questa guerra e allo
stesso tempo Eldad dice anche non è il momento di iniziative
di pace rivoluzionarie, ma è il momento di pensare al dopo
ed è un dopo a cui noi stiamo già lavorando, è un dopo, una
prospettiva a cui purtroppo non stiamo assistendo oggi.
Non vediamo dal punto di vista del paese, del governo, una
prospettiva. Al momento c'è la guerra - e sembra che questa
guerra continuerà all'infinito - e non si sta preparando
questo dopo.
Quello che invece gli abitanti stanno cercando di fare è
proprio questo, dire: ok adesso c'è questa situazione,
lottiamo, facciamo di tutto in collaborazione con tutto il
movimento per la pace in Israele per opporci a quello che
sta avvenendo, però allo stesso tempo dobbiamo preparare la
società del dopo. E come lo facciamo? Lo facciamo attraverso
l'educazione. L'educazione è proprio il cuore del lavoro del
villaggio. Gli abitanti stessi non chiamano quasi villaggio,
ma una istituzione educativa che lavora sul lungo termine,
questa è anche un'espressione proprio che ama ripetere Samah
Salaime, la portavoce. Cioè, non è semplicemente un
villaggio in cui le persone vivono insieme, ma un progetto
che lavora sull'educazione alla pace fin da piccoli, dai
bambini della dell'asilo nido, scuola dell'infanzia, scuola
primaria e poi la Scuola per la Pace per gli adulti. E
quindi chiaramente è un dopo che richiede tempo per essere
preparato, perché ci vogliono anni per crescere una
generazione diversa; però probabilmente è l'unica strada, è
l'unica direzione da prendere. |
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